(una storia realizzata con le carte di Master of Tales)
All'inizio fu una folata di vento. Solitaria. Senza forza. I passeri neanche aprirono le
ali. C’era il sole, e quella sensazione di calore tipica delle prime timide
giornate primaverili. Il mare brillava piatto, i gabbiani volteggiavano al
largo, si radunavano sopra le secche e vicino le vele spiegate. Qualcuno stava
tentando la fortuna dalla darsena, lanciava la lenza lontano e lasciava fare
alla debole corrente marina.
Io
scrutavo il cielo con il tabacco in mano e la cartina nell'altra. Non che ci
fosse niente di particolare nel cielo. Mi capita spesso di fissare un punto in
alto, una nuvola, un gabbiano, la scia di un aereo. Niente d’importante,
semplicemente per non incrociare sguardi.
Una
seconda raffica di vento quasi mi portò via il cappello, feci giusto in tempo a
portare una mano sulla testa e calarlo sugli occhi. Colto alla sprovvista lasciai
cadere sul marciapiede il tabacco. M’inginocchiai per recuperarlo, è giunto il
maestrale, pensai. Qualcuno si fermò vicino a me, sollevai lo sguardo ed era
lei. Era giunta col maestrale.
Si
poteva pensare di tutta quella folla che mi veniva incontro, che fosse giunta
col maestrale. È naturale, sempre c’è qualcuno che arriva e sembra che lo porti
il maestrale, e sempre c’è qualcuno che giunge proprio quando il vento
s’attenua. E allo stesso modo c’è qualcuno che se ne va e sembra che lasci il
posto al maestrale, oppure che il vento se lo porti via.
E
comunque, lei e il maestrale erano giunti assieme. Lui, il maestrale, si
presentò con un’aria sostenuta, con la boria di chi viene a reclamare qualcosa
di suo, del resto questa è la sua terra prediletta. Lei imprigionò i miei
pensieri nel fondo dei suoi grandi occhi scuri.
Questo
avevano in comune, entrambi possedevano quel dono speciale di attirare le
persone, di vincolarle, di costringerle al loro volere.
Forse
accade solo a me di perdere la volontà quando soffia il maestrale, e di
ritrovarmi in balia dei suoi capricci, come una ragnatela che il vento scuote a
piacimento, che trascina, schiaccia contro il muro, solleva e sbatte
incessantemente.
Lei
aveva quello stesso potere. O magari erano solo i suoi occhi grandi e neri ad
averlo. Se avessi trovato la forza di distogliere il mio sguardo dal suo, forse,
ma dico forse, sarei riuscito a oppormi, avrei potuto sottrarmi al suo giogo,
proseguire a non fare niente senza il timore d’inchiodarmi su un pensiero. Forse
avrei ricominciato a fissare la nuvola, o il gabbiano o qualsiasi altra cosa
che si librava nell'aria. E invece lei e il maestrale mi rapirono il respiro
tanto che potrei giurare che se mi fossi opposto al loro disegno, non avrei
avuto più la forza di respirare.
Probabilmente
né lei né il maestrale sono consapevoli del loro potere. È nella loro natura
soggiogare e sopraffare, con questi poteri ci si nasce.
E
così gli alberi cominciarono a scrollarsi di dosso le foglie morte, i vecchi
nidi e i rami già secchi, i gabbiani tornarono a riva, il pescatore ritirò le
lenze, i legni ammainarono le vele, i drappi sui pennoni si tesero e i fiori
cominciarono a perdere i petali più esposti, che danzando nell'aria ricordavano
farfalle senz'anima.
Lei
sorrise, mi strinse a sé e mi baciò sulla guancia. Io chiusi istintivamente gli
occhi, come quando ci si espone al vento e ai pollini che trascina, alla
sabbia, alla polvere, ai petali dei fiori. Socchiusi le palpebre e l’immagine che
s’impresse nella mente fu quella dei suoi grandi occhi scuri, nei quali già
presagivo d’essermi perso. Cercai un’immagine che sostituisse quella, nella
speranza di evitare il giogo, e si compose nel buio la scena d’un cielo che
s’abbassava piegando la schiena sotto il peso di enormi nuvole di piombo. Quando
riaprii gli occhi, la sua guancia ancora sfiorava la mia, e il cielo davvero
s’era lasciato vincere da nuvole scure.
Sapevo
di non avere difese, ma ero lì per lei. Sperai che almeno cessasse il maestrale,
e invece rimase lì, a giocare col suo vestitino leggero, e io mi sentii definitivamente
perso, avvolto nella ragnatela del suo sorriso. (G. C.)